Homer, Alaska, 17 ottobre

Howard Small si sporse dalla barca appoggiandosi alla falchetta e vomitò l’anima, con una tale violenza che quasi perse gli occhiali. Il maleodorante contenuto del suo stomaco cadde rumorosamente in acqua attirando l’attenzione degli equipaggi delle barche vicine. Si voltarono tutti verso di lui e applaudirono. Prima di tirarsi su, Howard sputò due o tre volte nel vano tentativo di liberarsi dell’orribile sapore che aveva in bocca. Si ripulì la bocca imbrattata sulla manica del piumino e gemendo appoggiò la testa all’indietro, contro lo scafo in vetroresina.

“Cristo, Howard, siamo ancora in porto. Non dirmi che hai già il mal di mare” lo derise Jerry Small, capitano della barca da pesca.

Erano cugini, ma fisicamente erano uno l’opposto dell’altro. Howard, più giovane di qualche anno, era affetto da calvizie precoce, mentre Jerry sfoggiava un cespuglio di capelli neri e argentei. Howard era di costituzione fragile e aveva un’aria da topo di biblioteca, Jerry era robusto e abbronzato, e pesava almeno novanta chili.

“Non prendertela con me, Jerry. È colpa di quel sadico seduto laggiù” rispose indicando col braccio l’altro passeggero a bordo del trenta piedi. “Fino a quattro ore fa eravamo a bere tequila al Salty Dog Saloon.”

Sull’altro lato della barca, il passeggero sorrise sornione. Stava appoggiato con nonchalance contro il telaio di poppa, con una gamba distesa sulla panca e l’altra piegata contro il petto, con le mani strette sul ginocchio. Indossava dei jeans scoloriti, una felpa nera e un giubbotto di pelle. Portava stivali di ottima qualità, ma piuttosto consumati.

Nonostante gli abiti stropicciati, aveva un’aria inspiegabilmente elegante.

Alle spalle poche ore di sonno e una massiccia quantità di alcool che però non offuscavano il suo sguardo vigile e penetrante. Aveva occhi di un grigio insolito, glaciali e amichevoli insieme. Jerry era attratto dalla loro profondità, ma si sforzò di distogliere lo sguardo.

“So io cosa ti serve.” Il passeggero consultò il suo Tag Heuer e volse lo sguardo verso l’alba ancora lontana. “Proprio come sospettavo. A Oslo, in Norvegia, sta per iniziare l’happy hour.”

Pescò due bottiglie di Alaska Pale Ale dal frigo portatile che aveva accanto e ne lanciò una a Howard.

“Chiodo scaccia chiodo” gli disse con un ghigno, aprendo una bottiglia della sua birra preferita.

“Altro che chiodo” brontolò Howard, “alle quattro e mezza del mattino questa è una trivella!” Ma aprì comunque la birra e bevve un lungo sorso.

“Meglio?”

“Meglio.”

“Papà, le cime di prua sono libere. Partiamo?” Il figlio adolescente di Jerry Small era una versione extralarge del padre.

Il ragazzo, che in realtà era già un uomo fatto, era più alto del padre di almeno dieci centimetri, e aveva le spalle di un granatiere: un armadio con la faccia di un bambino.

“Pronti a sciogliere gli ormeggi!” disse Small mentre il motore Chevy, montato a poppa, ritornava in vita.

John liberò l’ultima cima e saltò a bordo della Wave dancer, un nome poetico per quella barca da pesca robusta e spartana che aveva già superato parecchi inverni polari.

I due passeggeri raggiunsero il capitano nella relativa protezione della cabina aperta sui lati.

Era la prima barca della flotta di Homer a uscire per la pesca dell’halibut, un enorme pesce di fondale molto simile alla passera di mare.

Sebbene la stagione fosse ormai inoltrata, Jerry aveva promesso al gruppo che avrebbero comunque portato a casa dei veri giganti. A dritta la barca costeggiò la più grande lingua di terra del mondo formatasi naturalmente, l’Homer Spit. Al riparo della baia del Cook Inlet, in cui le correnti del golfo dell’Alaska incontrano quelle dello stretto di Shelikof, il mare ha creato una striscia di terra che si protende per oltre un miglio, larga quanto basta per riuscire a lanciare un pallone da basket da una parte all’altra. Il lato frastagliato della costa settentrionale della penisola di Kenai era il posto migliore del mondo per la pesca del salmone e dell’halibut, oltre che il luogo in cui nidifica un enorme stormo di aquile dalla testa bianca, sempre alla ricerca di cibo nella discarica della città assonnata.

La Wave dancer doppiò la punta della lingua di terra. A babordo, le Kenai Mountains erano un’ombra scura nella luce fioca della falsa alba. Il sole era solo una chiazza di luce pallida contro l’orizzonte. La temperatura era scesa sotto lo zero e costringeva gli uomini a stare stretti vicino alle bocchette del riscaldamento della cabina. Il vento era leggero e le onde non superavano il metro: una passeggiatina per quella barca progettata per reggere onde alte il triplo.

“Non mi sembri uno dei soliti intellettuali che Howard si porta dietro quando viene a pescare” disse Jerry Small al passeggero.

L’uomo sorrise. “No, faccio il consulente, sono stato incaricato di verificare se l’invenzione di Howard può funzionare per delle applicazioni commerciali.”

“E?”

“E cosa?”

“L’aggeggio di mio cugino funziona o no?”

“Se il mio avallo significa qualcosa per la Pacific Machine and Die, l’anno prossimo il dottor Howard Small sarà un uomo molto ricco.”

Howard sorrise tra sé, nonostante il mal di testa. Era la prima volta che, dopo due settimane di test nella zona nord di Valdez, sentiva il parere positivo del suo amico. “Grazie, Mercer.”

“Non ringraziarmi” disse Philip Mercer stringendo la mano di Howard, “sei tu che hai fatto tutto il lavoro. Tra un paio d’anni l’industria mineraria sarà rivoluzionata dal progetto che hai sviluppato.”

Il professor Howard Small e la sua squadra dell’UCLA, l’università di Los Angeles, avevano passato gli ultimi tre anni a mettere a punto una mini-talpa, una macchina per la perforazione dei tunnel, che usava le più moderne tecnologie di laser, sistemi idraulici e microminiaturizzazione. La creatura, chiamata Minnie, aveva dato prova della sua efficienza dal primo test, effettuato in condizioni tra le più estreme con cui macchine di quel genere si devono confrontare. Aveva scavato una galleria di due miglia nel granito, con una deflessione di solo un decimillesimo di pollice dalla sua rotta originale. A differenza di altre macchine perforatrici, Minnie era piccola ed economica. Con una squadra di venti persone si poteva far funzionare la macchina lunga cinque metri per ventiquattro ore al giorno, e scavare un tunnel di un metro e venti di diametro. Le perforatrici usate per scavare il tunnel tra l’Inghilterra e la Francia erano lunghe quasi duecento metri e ci volevano centinaia di uomini per farle lavorare.

Mercer era stato ingaggiato dalla Pacific Machine and Die, un importante fabbricante di macchinari, per valutare l’utilità di Minnie nell’estrazione mineraria. Una perforatrice di dimensioni così contenute avrebbe permesso di eliminare le esplosioni nelle miniere e le centinaia di morti che esse causavano ogni anno. Grazie alla sua formidabile reputazione nel campo dell’industria mineraria, la raccomandazione di Mercer garantiva che la Pac Mac & Die avrebbe acquistato i diritti di produzione di Minnie nel giro di qualche mese. Dopo tutti quegli anni il lavoro di Howard stava per essere finalmente ripagato.

La giornata di pesca era un modo per entrambi per sciogliere la tensione accumulata nelle lunghe settimane di prove tecniche. Sconosciuti fino a poco tempo prima, avevano instaurato una relazione che sembrava esistere da sempre.

“Questo significa che finalmente pagherai la giornata di affitto della barca?”chiese Jerry Small a suo cugino.

“Non contarci.”

A un’ora di navigazione da Homer, Jerry rallentò la Wave dancer ed entrò in una piccola insenatura riparata, portando il motore alla lenta andatura della pesca a strascico. Lui e suo figlio tenevano d’occhio l’ecoscandaglio, confrontando le letture del fondale con i riferimenti geografici sulla riva. Dopo alcune manovre, Small fermò il motore e lasciò che il silenzio dell’Alaska li avvolgesse.

“La buca più pescosa di questi mari” annunciò, alzandosi dal sedile per preparare le pesanti canne da pesca.

La banchisa dell’oceano Artico, Ottocento miglia a nord, sembrava strappare il calore al sole, che emetteva una luce fredda e lattiginosa. Da dietro le nuvole che correvano basse e veloci, il cielo appariva come una coltre opaca, un effetto speciale che solo la natura riusciva a creare.

Avevano gettato gli ami con le esche solo da qualche minuto, e Mercer trascinò in superficie un halibut da quaranta chili. Jerry e John presero dei robusti uncini per issare il pesce al di sopra della falchetta. Il corpo piatto era completamente liscio, tranne che per le due sporgenze che proteggono gli occhi. Anche se l’halibut è una delle creature più brutte che esistano, Mercer ricevette le congratulazioni di tutti.

“Bella bestia.”

“Pesce spettacolare.”

“Somiglia alla mia ex moglie. John, non riferire a tua madre quello che ho detto.”

Cinque minuti dopo, Mercer e Jerry aiutarono John a tirare in barca un pesce di una ventina di chili, e poi toccò a Howard che da sessanta metri di profondità tirò su un altro mostro. Continuarono così per un’ora, tirando fuori i pesci pochi minuti dopo che l’amo aveva toccato il fondo. Quando tutti ebbero catturato il loro pesce, gli altri li ributtarono in mare mano a mano che li pescavano. Non c’era molta competizione in quel tipo di pesca, era più che altro una prova di forza fisica per riuscire a portare in superficie quelle pesantissime e viscide creature.

Jerry paragonò lo sforzo a quello di tirare a galla un materasso matrimoniale, nessuna lotta ma un peso disumano. La vera attrattiva della pesca all’halibut sta nella complicità che si crea tra le persone. Jerry disse che per sperimentare la vera pesca dell’Alaska bisogna stare a bagno fino alle anche in un fiume ghiacciato mentre i salmoni si affannano nella loro corsa alla deposizione delle uova. Ce ne sono così tanti che li senti picchiare contro le gambe, come se fossero uno dei tanti ostacoli immersi nell’acqua. Ma siccome durante la loro corsa i salmoni non mangiano, i pescatori se li vedono guizzare tra le lenze senza riuscire a catturarli.

“È più frustrante che essere impotenti e trovarsi in un bordello” disse Jerry per descrivere la sensazione.

Howard si era ripreso dai postumi della sbornia quel tanto che bastava a godersi nuovamente le birre che Mercer gli passava senza tregua. Anche Jerry Small ci stava dando dentro col bere. Solo John, che per la legge era troppo giovane per bere, sembrava avere un qualche interesse a rimanere sobrio. Jerry gli aveva detto che se voleva poteva farsi un paio di birre, ma John aveva risposto che si stava allenando per il campionato di pallacanestro e si astenne del tutto.

Alle dieci del mattino avevano la sensazione di catturare continuamente lo stesso pesce, quindi recuperarono le lenze e Jerry avviò la barca per andare a pescare in un’altra buca, un po’ più lontana da Homer. Si diressero verso sud, spingendo al massimo il motore Chevy che si lamentava per lo sforzo, lasciandosi dietro una scia piatta. Il mare era calmo e il cielo si era rischiarato abbastanza da lasciar filtrare timidi raggi di sole che si riflettevano sull’acqua come i segnali di un eliografo.

Dopo una ventina di minuti, John indicò a tribordo e gridò: “Papà, cos’è quello?”

Jerry rallentò e virò bruscamente per tornare indietro, mentre Mercer e Howard si aggrappavano alla plancia per tenersi in equilibrio. A qualche centinaio di metri si vedeva una barca che sobbalzava tra le onde. Era più lunga della Wave dancer di cinque o sei metri, una barca commerciale da pesca con una piccola cabina incastrata a prua e il ponte di poppa occupato da una gru per le reti.

Nonostante la distanza si intuiva che a bordo di quella barca doveva essere successo qualcosa. Era troppo bassa sul livello dell’acqua e la parte emersa era annerita e rovinata dal fuoco: era circondata da un’aura di angoscia e di abbandono, e da sottocoperta proveniva un silenzio innaturale. Jerry accostò la Wave dancer. Chiamò, ma a bordo del relitto non si muoveva nessuno e non vi fu risposta al suo saluto.

“Che barca è?” chiese Jerry distrattamente, mentre si affiancava.

“Il nome a poppa è stato cancellato dalle fiamme” rispose suo figlio mentre fissava i parabordi alla falchetta della Wave dancer, “ma credo che sia la Jenny IV di Seward.”

Mercer era pronto a saltare a bordo con una cima non appena i due scafi fossero stati vicini. Legò velocemente le barche una all’altra. Le battute sui postumi della sbornia erano svanite non appena aveva avvistato la Jenny IV, e ora si muoveva freddo e professionale, come se per lui trovare dei relitti bruciati in mezzo al mare fosse una routine quotidiana. Il ponte bruciacchiato della Jenny IV era allagato da venti centimetri d’acqua che sciabordava da un lato all’altro muovendosi con il rollio. L’impermeabilizzazione degli scarponi di Mercer andò a farsi friggere appena saltò a bordo, e i piedi gli si addormentarono per il freddo. Si guardò attorno e poi chiamò Jerry.

“Chiama la guardia costiera e informali del ritrovamento. Digli che facciano pure con calma, tanto qui non ci sono superstiti. La sua voce aveva improvvisamente assunto un tono autorevole.

“E come lo sai?” chiese Howard sporgendosi tra le due barche.

Prima di rispondere, Mercer guardò di nuovo verso prua. “Perché il canotto di salvataggio è ancora appeso all’argano e c’è un corpo carbonizzato vicino ai miei piedi.”

“Oh merda” disse Jerry Small dalla plancia della sua barca. “John, chiama tu la guardia costiera!” Saltò a bordo della Jenny IV aggrappandosi a un winch mezzo bruciato e vide il cadavere a faccia in giù.

“Oh merda” ripeté.

La barca era in pessime condizioni, bruciata e con il ponte allagato, ma il cadavere era messo ancora peggio. Chiunque fosse, si capiva che era sopravvissuto a lungo dal momento dello scoppio dell’incendio. Dalla posizione del corpo si intuiva che si era trascinato fuori dalla cabina: giaceva disteso sul ponte come se avesse strisciato per sfuggire alle terribili fiamme prima di morire. Il tronco era quasi intatto, indossava ancora il giubbotto di salvataggio arancione sopra una camicia di flanella a scacchi, ma dal bacino in giù restavano solo i due monconi anneriti dei femori, che sporgevano inquietanti dalle anche. Le mani erano artigli rattrappiti, sulle ossa carbonizzate solo brandelli di carne che ondeggiavano lentamente con il movimento dell’acqua sul ponte.

Mercer non provò alcun desiderio di voltare il corpo per vedere i danni che il fuoco doveva aver provocato a quel volto.

La condizione bizzarra in cui si trovava il cadavere contribuiva ad acuire l’alone di mistero che aleggiava sulla barca. A bordo si era verificato un incidente con un incendio devastante che aveva colto la vittima di sorpresa, ma non c’era spiegazione su come mai il fuoco si fosse spento prima che la barca affondasse. Se fosse intervenuta un’altra barca per spegnere il fuoco, il corpo non sarebbe certo stato abbandonato sul relitto. Non avrebbe avuto senso.

“Torna sulla barca” disse Mercer a Jerry. “Mi servono una torcia e un’ascia.”

Jerry fu ben felice di tornare sulla Wave dancer e passò gli attrezzi a Mercer. Si sedette ansioso appoggiandosi alla falchetta mentre Mercer proseguiva le sue indagini.

“Non credi che dovremmo aspettare la guardia costiera?”

Howard aveva ragione, pensò Mercer, ma c’era qualcosa in quell’incendio che lo lasciava perplesso, e non aveva intenzione di aspettare le autorità per andare a fondo.

“Gli ci vorrà del tempo.”

A prua, una piccola rampa di scale saliva verso la timoniera. Accanto ai gradini, una porta conduceva sottocoperta. La cabina di pilotaggio, sebbene fosse danneggiata dal fuoco, era messa un po’ meglio del ponte sottostante. Mercer si avvicinò alla porta e cercò di girare la maniglia. Il legno era stato intaccato dal fuoco e cedette immediatamente. Mercer colpì la porta con l’ascia e il legno si sbriciolò, mentre metà della porta cadeva sulla superficie dell’acqua che allagava il ponte, con un tonfo.

Accese la potente torcia e gettò un fascio di luce all’interno della stanza angusta sotto la cabina. Alla sua sinistra c’era una piccola cambusa con delle panche lungo il perimetro e un tavolo da pranzo. Era tutto bruciato. Sulla destra c’erano tre cuccette, due delle quali erano completamente vuote, a parte i sottili strati di cenere di quelli che erano stati materassi e coperte. Nella terza cuccetta c’era un altro scheletro, bruciato al punto che non v’era traccia di carne attaccata alle ossa. Le orbite vuote fissavano Mercer e sembravano volerlo accusare: un brivido gelido di superstizione gli corse lungo la spina dorsale. Anche se provava un forte desiderio di uscire da quell’ossario, si sforzò di rimanere lucido e di procedere.

Sospettava che il terzo membro dell’equipaggio della Jenny IV fosse saltato fuori bordo per sfuggire a quell’inferno. Posando la mano su una paratia d’acciaio notò che il metallo era gelido. La notte precedente era stata così fredda che era impossibile stabilire l’ora dell’incendio prima che il medico legale avesse esaminato i corpi.

Il soffitto della stanza era bruciacchiato dalle fiamme, ma sembrava che il fuoco non avesse avuto il tempo di bruciare completamente il legno. Accanto alla porta che Mercer aveva sfondato ce n’era un’altra che conduceva alla stiva attraverso uno stretto passaggio. Della porta non era rimasto niente: il telaio e il pannello laterale erano stati scaraventati all’esterno da un’esplosione che proveniva dal basso. Questo spiegava perché il fuoco non aveva distrutto completamente la barca. L’esplosione doveva aver tolto ossigeno alle fiamme, soffocando quell’inferno.

Mercer si chiese quale sostanza trasportasse la barca, che potesse provocare una simile esplosione.

Il motore era a poppa, e logicamente i serbatoi di carburante dovevano trovarsi lì vicino, ma se fosse stata quella la natura dell’esplosione ci sarebbero stati danni sopracoperta, e la barca sarebbe affondata. Doveva trattarsi di qualcos’altro.

L’acqua, verde e torbida, rifletteva la luce della torcia mentre Mercer avanzava nella stiva. L’odore del legno e della plastica bruciata non riusciva a coprire il fetore di anni e anni di pesca: uno spesso strato di schiuma densa stagnava sulla superficie dell’acqua, interrotto da chiazze iridescenti di carburante disperso. Mercer fece un cauto passo avanti nella stiva allagata, tastando lo scalino mentre scendeva. L’acqua assorbiva tutto il calore del suo corpo e gelava il tessuto leggero dei pantaloni.

Mentre stava immerso fino alla coscia, capì che non si sarebbe potuto combinare granché senza attrezzatura subacquea. Era sul punto di andarsene, quando la luce fioca della torcia si rifletté su qualcosa che stava sul gradino successivo.

Emise un lamento mentre immergeva il braccio nell’acqua per afferrare l’oggetto, inzuppandosi fino alla spalla. Era un pezzo di lucente acciaio inossidabile, lungo trenta centimetri e largo una ventina. Qualunque cosa fosse esplosa a bordo aveva strappato l’acciaio come fosse carta: i bordi erano deformati come quelli di una granata esplosa. Mercer lo girò, illuminandolo con la torcia, e vide che su un lato c’era scritto ‘roger’, con l’ultima lettera proprio in corrispondenza dello strappo.

Infilò il frammento in uno dei tasconi del suo giubbotto e si avviò verso il ponte. Trasse alcuni respiri profondi nella tenue luce del giorno, rendendosi improvvisamente conto che da quando era entrato nella barca aveva tenuto il respiro al minimo.

“Trovato niente?” gli gridò Jerry.

“No” rispose Mercer, notando solo in quel momento che la gru delle reti era danneggiata.

La parte superiore della struttura a forma di A del cavalletto era sparita, come se fosse stata tranciata con un lanciafiamme. Esaminò più da vicino i due monconi di acciaio, tutto ciò che restava della gru, e notò che le fratture erano nette e lineari. Non c’erano segni di danni da esplosione. Qualsiasi cosa avesse distrutto l’argano, lo aveva reciso di netto. Incuriosito, si voltò e vide che anche le antenne radio della Jenny IV erano state spezzate, una spanna sopra il tetto della timoneria.

Non riuscì a trovare una spiegazione.

“Hai contattato la guardia costiera?”

“Sì, hanno fatto partire una lancia da Homer, dovrebbe essere qui nel giro di un’ora.”

“Bene.” Mercer tornò sulla Wave dancer dopo aver dato un’ultima occhiata al cadavere a bordo della barca. “Non ha senso che rimaniamo legati alla Jenny IV. Il ponte inferiore è allagato e potrebbe affondare da un momento all’altro.”

Jerry mise in moto il motore mentre suo figlio scioglieva le cime. Quando furono a una cinquantina di metri dalla Jenny IV, Jerry mise in folle e si tenne a distanza costante dal relitto.

L’incendio della barca e il suo equipaggio di scheletri era un mistero che non si spiegava con una banale esplosione del motore, e ne erano tutti e quattro consapevoli.

Rimasero a lungo in silenzio, guardando la Jenny IV che rollava tra le onde, ammantata da una quiete che sapeva di morte. I due corpi a bordo della barca non avrebbero mai dato le risposte che cercavano.

“Beh, direi che la battuta di pesca è conclusa” disse Jerry, con un tono di voce forzatamente alto.

Mercer si voltò verso di lui e sorrise per scacciare l’angoscia.

“Diamine, la pesca è solo un’occasione per farsi una bevuta, ma per quello non ho mai avuto bisogno di tante scuse.”